A Roma, non di rado, i toponimi sono piuttosto insoliti. A pochi metri dal Pantheon ci possiamo imbattere in una strada dal nome decisamente singolare: via del Piè di Marmo. L’appellativo, in questo caso, deriva da un gigantesco piede in travertino adagiato su un una lastra dello stesso materiale lapideo e collocato su un podio in laterizio, sulla fronte del quale è inserito anche un grande frammento di colonna di granito grigio.
Il piede, lungo più di un metro e scolpito in un unico blocco, è ciò che rimane di una colossale statua antica che, fatte le dovute proporzioni, doveva essere alta circa otto metri, l’equivalente di una casa a due piani. Proveniva, quasi sicuramente, da un grande tempio edificato in quest’area nel 43 a.C. durante il secondo triumvirato, stipulato da Marco Antonio, Ottaviano e Lepido (43-33 a.C.). Il santuario era noto come Iseo Campense, in quanto dedicato a Iside, divinità femminile egizia della vita e della fertilità, e al suo consorte Serapide, dio dell’universo, dell’oltretomba e della guarigione, il cui culto si estese prima in Grecia e poi a Roma. Il tempio dava nome allo stesso territorio in cui fu eretto: la Regio Isis et Serapis, la terza delle quattordici regioni in cui era suddivisa l’Urbe in epoca augustea. All’epoca di Tiberio (14-37 d.C.), il santuario fu distrutto e le statue gettate nel Tevere ma successivamente, durante il regno di Caligola (37-41 d.C.), fu ricostruito. Nell’80 d.C. il santuario venne distrutto da un incendio. Ricostruito dall’imperatore Domiziano (81-96 d.C.), l’Iseo rimase in piedi fino al IV secolo d.C., quando fu nuovamente distrutto da un incendio e non venne più riedificato. In seguito, tutti i preziosi marmi e i travertini vennero in parte riutilizzati e in parte murati con la calce, anche per cancellare la testimonianza così iconica di un tempio dedicato ad una divinità associata alla nascita.
Gli studiosi però non sono ancora riusciti a identificare con certezza questo grosso frammento podomorfo e nemmeno se appartenga ad un personaggio di sesso maschile o femminile, come, ad esempio, un sacerdote o una sacerdotessa. Si è anche ipotizzato che possa essere ritenuto un lacerto della statua votiva raffigurante la stessa Iside cui era dedicato il suddetto tempio ma che purtroppo è andata perduta, sebbene ai Musei Capitolini si può trovare una scultura marmorea, raffigurante la stessa divinità, che ne sarebbe la copia fedele. Stando alle dimensioni, molto probabilmente il grosso frammento apparteneva ad un acrolito, ovvero una statua con le carni di marmo bianco e il panneggio in lamine di bronzo, o forse di vera stoffa, montato su uno scheletro di legno. L’arto, presentandosi isolato, non consente di risalire alla reale posizione della statua, se cioè rappresentasse una figura in piedi o seduta, eventualmente su un trono o uno scranno. L’unica certezza è che si tratta del piede sinistro, e che indossa un particolare sandalo di origine greca, con suola dal bordo rialzato e lacci di cuoio avvolti attorno al collo del piede: la crepida.
In realtà questo frammento non è l’unico reperto dell’imponente suddetto Iseo Campense, che misurava ben m 240 x 60 ma sono numerosissime le sculture e gli elementi architettonici sopravvissuti che provengono da questo antico tempio. In primis va ricordata la stessa gigantesca pigna bronzea, opera del II sec. d.C., siglata dal suo autore, lo scultore romano Publio Cincio Savio: decorava probabilmente una fontana presso l’Iseo e gettava acqua dalle punte ma più tardi venne collocata al centro del quadriportico dell'antica basilica di San Pietro, dove la vide nel primo Anno Santo (1300) anche il pellegrino Dante Alighieri (1265-1321) che la cita (Inferno, XXXI, 59) per poi venire ancora spostata, nel 1608, nella sua attuale posizione, al centro della grande esedra del cortile vaticano, cui ancora oggi dà il nome. Da questa gigantesca scultura avrebbe origine anche lo stesso nome del rione Pigna nel cui territorio oggi si trova il Piè di Marmo.
Limitandoci alla sola statuaria ancora visibile, esternamente, a Roma, proviene inoltre dall’Iseo la cosiddetta “Madama Lucrezia”, una delle sei statue parlanti di Roma, l’unica rappresentante femminile della cosiddetta “Congrega degli Arguti”, a cui il popolino affidava la protesta politica contro il papato in forma di satira pungente: si tratta di un colossale busto marmoreo di epoca romana, alto circa 3 metri, attualmente posto su un basamento a piazza San Marco, all'angolo tra Palazzo Venezia e Palazzetto Venezia. Secondo gli archeologi potrebbe essere questa la vera statua votiva raffigurante la dea Iside che sorgeva all’interno del suddetto tempio ma il nomignolo deriva, secondo la tradizione, dalla nobildonna amalfitana Lucrezia d'Alagno, (1430-1479), amante del principe spagnolo Alfonso (1396-1458), membro di un ramo della casa reale aragonese, che assunse il titolo di re Alfonso I di Sicilia e di Napoli: dopo la morte del sovrano, a causa dell'ostilità del suo successore, la donna si trasferì a Roma e abitò nei pressi del luogo dove ora si trova la statua.
Erano parte del tempio isiaco anche i due leoni di basalto nero posti simmetricamente su ambo i lati della cordonata michelangiolesca del Campidoglio: nel 1562 Pio IV Medici (1560-1565) li donò al popolo romano e furono così posti ai piedi della suddetta scalinata, su alti basamenti disegnati dall’architetto e scultore ticinese Giacomo della Porta (1532–1602), tra i più insigni allievi di Michelangelo Buonarroti (1475-1564). Nel 1587, quando Sisto V Peretti (1585-1590) costruì l’Acquedotto Felice (Aqua Felix), che in omaggio di questo pontefice porta il suo nome di battesimo e che alimentava anche il colle capitolino, le sculture vennero adattate a fontane con l’aggiunta di due conche per la raccolta dell’acqua, versata da cannelle inserite nelle bocche dei leoni. Raccontano le cronache che, in occasione dell’elezioni dei papi Innocenzo X Pamphilj (1644) e Clemente X Altieri (1670), dalle cannelle delle fontane invece dell’acqua venne fatto sgorgare vino bianco e rosso. Alla fine dell’Ottocento, i leoni vennero trasferiti all’interno dei Musei Capitolini e sostituiti da copie di marmo bigio ma tornarono al loro posto nel 1956. C’è infine un’ulteriore statua in travertino raffigurante un altro felino, nello specifico una piccola gatta, anche questo animale sacro per gli Egizi, che proviene dall’Iseo Campense: si può scorgere, murata, sul primo cornicione all'angolo di Palazzo Grazioli, tra l’omonima piazza e via della Gatta, la strada sottostante cui la scultura dà il nome.
Tornando al Piè di Marmo va ricordato che, in realtà, dal Cinquecento era addossato al muro di un palazzo in prossimità di piazza del Collegio Romano, all’imbocco della via cui dà oggi il nome. All’inizio del 1878, però, in occasione delle solenni esequie del primo re d’Italia Vittorio Emanuele II (1820-1878), per non ostacolare il passaggio del corteo funebre, proveniente dal Palazzo del Quirinale e diretto verso il Pantheon, fu spostato di qualche metro e sistemato nella posizione attuale, all’inizio di una traversa della stessa via del Piè di Marmo, denominata via Santo Stefano del Cacco. Quest’ultimo è un altro curioso odonimo, che deriva, in questo caso, da una chiesetta qui sorta in epoca medievale su una parte delle rovine nella parte meridionale del santuario, dove c’era il Serapeo, cioè lo spazio sacro dedicato a Serapide, da cui provenivano i due leoni capitolini citati in precedenza. In questo toponimo c’è un riferimento, anche stavolta, all’Antico Egitto: “cacco” è infatti la storpiatura popolare del termine “macaco”, il soprannome affibbiato a una statua cinocefala in calcare, del II sec. d.C., raffigurante Thot, la divinità egizia della luna, della sapienza, della scrittura e della magia, nelle sembianze dell’animale a questa sacro, un babbuino, rinvenuta anch’essa, in epoca medievale, in questa zona dove sorgeva l’Iseo di cui sarebbe un ulteriore reperto. La statuetta è oggi conservata nei Musei Vaticani e, precisamente, nel Museo Gregoriano Egizio, all’interno del Palazzo del Belvedere.
Roma, dunque, nella sua millenaria storia non finisce mai di sorprenderci, a cominciare dai suoi bizzarri toponimi.