
Il 20 giugno 1516 viene terminata la Stufetta del Cardinal Bibbiena, un piccolo ambiente al terzo piano del Palazzo Apostolico Vaticano, celebre per un ciclo di affreschi mitologici attribuiti alla scuola di Raffaello Sanzio (1483-1520).
Bernardo Tarlati o Tarlato Dovizi da Bibbiena, noto poi come Cardinal Bibbiena o più semplicemente il Bibbiena (1470–1520), dal nome del suo paese natale e capoluogo del Casentino aretino, fu una delle personalità di spicco presso la corte dei Medici a Firenze, dove arriva seguendo le orme del fratello maggiore Piero, e persino un commediografo: è infatti l’autore dell’opera La Calandria. Quando era ancora un laico Bernardo arrivò a ricoprire l’incarico di segretario personale del cardinale Giovanni de’ Medici, il secondogenito di Lorenzo Il Magnifico: con grande abilità diplomatica ne favorì l’elezione al soglio pontificio con il nome di papa Leone X e lo seguì a Roma dove il pontefice mediceo, che lo chiamava scherzosamente “Alter Papa”, lo nominò subito tesoriere generale, protonotario, conte palatino e gli concesse anche la berretta cardinalizia, nel concistoro del 23 settembre 1513. Ricevette così la tonsura, gli ordini minori e fu anche ordinato diacono (all’epoca per il cardinalato non era necessaria l’ordinazione episcopale).
Il prelato, fresco di nomina, prese allora alloggio all’interno del Palazzo Apostolico Vaticano e incaricò Raffaello Sanzio, cui era legato da forte stima ed amicizia, della sistemazione degli ambienti e di affrescare il suo appartamento privato, seguendo un progetto iconologico dettato da lui stesso e che metterebbe in scena l’intreccio e la convivenza di passione e ragione. Tra questi locali spiccano non solo la “Stufetta”, termine con il quale si definiva nel Cinquecento uno stanzino da bagno privato, ma anche la cosiddetta “Loggetta del Cardinal Bibbiena”.
Due lettere indirizzate dallo stesso cardinale toscano ad un suo amico, un altro porporato, il veneziano Pietro Bembo (1470-1547), insigne scrittore, poeta, umanista e fraterno amico anche di Raffaello per il quale scrisse l’epitaffio funebre che ancora oggi si può leggere sul sarcofago di quest’ultimo nel Pantheon, ci permettono di identificare l’ambito cronologico dell'impresa all'anno 1516: nella prima (19 aprile) si chiede un consiglio per nuovi motivi mitologici da rappresentare; nella seconda (20 giugno) si annuncia il compimento dei lavori.
Per quanto riguarda l'attribuzione, le opere sono quasi concordemente da assegnare agli allievi più talentuosi del maestro urbinate: Giulio Pippi de' Jannuzzi, o Giannuzzi, nativo di Roma e pertanto noto come Giulio Romano (1499-1546), Giovanni, Nani o Nanni, o Giovanni de' Ricamatori, meglio conosciuto come Giovanni da Udine (1487–1561), e il fiorentino Giovan Francesco Penni, detto il Fattore (1488–1528).
La “Stufetta” è un ambiente a pianta quadrata (2,15 metri per lato) coperta da una volta a crociera, decorata ad affresco e a stucco. Sulla parete orientale si apre l’unica porta e su quella opposta una finestra mentre le altre due hanno al centro una nicchia sopra una lastra di marmo e un riquadro con mascherone.
La volta e le lunette sono decorate, su sfondo bianco e rosso, da esili grottesche, particolare tipo di decorazione pittorica parietale, che affonda le sue radici nella pittura romana di epoca augustea, riscoperto e reso popolare a partire dalla fine del Quattrocento. Secondo l’insigne orafo, scultore e scrittore fiorentino Benvenuto Cellini (1500-1571) nella sua nota autobiografia (stampata postuma a Napoli nel 1728) il termine deriva dalle grotte del colle Esquilino a Roma che altro non erano che i resti sotterranei della Domus aurea di Nerone, scoperti nel 1480 e divenuti subito popolari tra i pittori dell'epoca, tra cui spiccano Raffaello e i suoi sopracitati più valenti allievi, che spesso vi si calarono per studiare quelle originali pitture.
Ai lati della porta, della finestra e delle nicchie si trovano otto riquadri (circa 66×30 cm ciascuno) con “storiette” mitologiche: a settentrione Venere e Adone e uno scomparto illeggibile; a oriente la Nascita di Erittonio (il quarto mitico re di Atene) e la Nascita di Venere; a sud Venere e Amore condotti dai delfini e Venere ferita da Amore; a ovest Pan e Siringa e uno scomparto distrutto, probabilmente già decorato con Venere nell’atto di togliersi una spina, come si evince da un'incisione dell’incisore romagnolo Marco Dente o Marco da Ravenna (1493-1527), attivo soprattutto nell’Urbe dove morì durante il Sacco di Roma. Sotto ciascuna di queste scene si trovano riquadri minori a fondo nero, con all’interno puttini alati su piccole portantine trainate da tartarughe, chiocciole, draghi e farfalle. La capacità, straordinaria per l’epoca, di ricreare l'antica decorazione così fedelmente, nei minimi dettagli, si inquadra negli interessi archeologici condivisi in quegli anni dal Sanzio e dal papa mediceo Leone X.
Nel Settecento il pittore romano Vincenzo Camuccini (1771-1844) trasformò la “Stufetta” in cappellina ricoprendo le pareti con tavole e la volta con una tela. L’ambiente, che oggi è di pertinenza della Segreteria di Stato Vaticana, divenne presto oggetto di studio. Nel 1890 lo storico dell’arte austriaco Hermann Dollmayr (1865-1901), in un’opera monografica dedicata proprio a questo stesso locale, nel titolo definito “stanzetta”, a causa di un’errata interpretazione lo chiamò “ritiro di Giulio II” e ne riconobbe i motivi mitologici tratti da due autori latini: il poeta e scrittore Publio Ovidio Nasone (43 a.C. – 18 d.C.) e il grammatico Servio Mario Onorato (vissuto alla fine del IV secolo d.C.).
Raffaello, al quale il cardinal Bibbiena nel 1516 aveva commissionato il proprio ritratto ufficiale come porporato, un olio su tela oggi conservato nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze, volle anche immortalare il suo amico e mecenate in una delle quattro stanze affrescate da lui e dalla sua scuola all’interno del Palazzo Apostolico Vaticano, quella dell’Incendio di Borgo. Nella scena che raffigura La battaglia di Ostia, combattuta da papa Leone IV (847-855) contro i Saraceni (849), il ritratto di uno dei due cardinali che sono alle spalle del pontefice protagonista, effigiato con il volto di papa Leone X Medici (1513-1520), allora regnante, sarebbe proprio quello del Bibbiena e l’autore delle fattezze del cardinale potrebbe essere lo stesso maestro urbinate o forse il sopracitato Giulio Romano, che avrebbe anche realizzato il cartone dell’intero affresco.
Il cardinale Bernardo, del resto, stimava così tanto Raffaello che voleva dargli in sposa sua nipote, Maria Dovizi, nata alla fine del XV secolo dal matrimonio del fratello minore Antonio, notaio e anch’egli impiegato a Firenze nella Cancelleria medicea, con una certa Piera. La giovane morì prematuramente nel 1514, probabilmente a causa della sua cagionevole salute e i suoi resti mortali vennero traslati a Roma nel Pantheon, dopo la morte di Raffaello, e posti nello stesso sepolcro del maestro marchigiano, come ricorda una lapide a destra della cappella funebre. Sembra però che, in verità, proprio la debolezza fisica della ragazza o più verosimilmente la sua troppo giovane età, o forse la volontà di non interrompere altre relazioni amorose, abbiano indotto Raffaello a non “sacralizzare” questo legame sentimentale.
L’amore per la bellezza, rappresentata in questo caso da questo unico e straordinario ambiente che ancora oggi possiamo ammirare, invece non tramonta mai.