
In questi giorni in Italia ricordiamo Durante di Aldighiero degli Aldighieri, internazionalmente noto oggi come Dante Alighieri, uno degli uomini che hanno dato più lustro all’Italia e di cui andiamo fieri a livello mondiale. Tra i tanti pellegrini recatisi in pellegrinaggio a Roma nell’anno 1300, in occasione del primo giubileo della storia, indetto da papa Bonifacio VIII Caetani, molto probabilmente vi fu anche lui, anche se, in realtà, non ci sono documenti certi sulla sua effettiva presenza nella Città Eterna. L’unica visita di Dante sicuramente attestata avvenne l’anno successivo, nel settembre 1301, quando il “Sommo Poeta” fece parte dell’ambasceria inviata da Firenze al Papa per ben disporne l’animo verso la città. In un passo della Divina Commedia, per l’esattezza del canto XVIII dell’Inferno lui stesso in effetti scrive: «…come i Roman per l’essercito molto, / l’anno del giubileo, su per lo ponte / hanno a passar la gente modo colto, / che da l’un lato tutti hanno la fronte / verso ’l castello e vanno a Santo Pietro; / da l’altra vanno verso il monte…». Questa precisazione, in cui si fa chiaro riferimento sia al Ponte Elio, oggi Ponte Sant’Angelo, eretto dall’imperatore Adriano nel II° secolo per collegare il suo mausoleo, l’attuale Castel Sant’Angelo, con l’Urbe, sia al Monte Giordano, collinetta che si era stata formata molto probabilmente dai detriti di uno scalo fluviale della zona e all’epoca roccaforte della potente famiglia degli Orsini, la ritroviamo solo in Dante e ha chiaramente il sapore di un ricordo personale. In ogni caso, se ci atteniamo strettamente al passo relativo all’andirivieni sul ponte e ai dati relativi all’affluenza così massiccia di romei fiorentini, gli studiosi sono quasi all’unanimità concordi nel ritenere che il “divin Poeta” sia venuto a Roma per il primo Giubileo e, a tal proposito, sarebbe particolarmente suggestivo pensare che la sua prima visita sia avvenuta proprio in quella Settimana Santa del 1300, in cui si colloca l’inizio del viaggio della Divina Commedia.
In un altro canto dell’Inferno (XXXI), Dante inoltre scrive: «… La faccia sua mi parea lunga e grossa/come la pina di San Pietro a Roma/e a sua proporzione eran l’altre ossa…», facendo riferimento alla gigantesca Pigna bronzea, risalente al II° sec. d.C., rinvenuta tra le rovine delle Terme di Agrippa in quella zona di Roma che secondo la tradizione prenderebbe nome dallo stesso strobilo (rione “Pigna”) ma, quando visse Dante, situata come ornamento al centro del quadriportico dell'antica basilica costantiniana di San Pietro in Vaticano. Oggi la possiamo trovare al centro del nicchione all’estremità del Cortile che proprio da essa prende nome (“Cortile della Pigna”).
In un passo del Paradiso (canto XXXI) invece Dante paragona se stesso in contemplazione del volto di san Bernardo al pellegrino venuto da una regione molto lontana, la Croazia, per saziare il desiderio da lungo tempo provato di vedere la sembianza del Cristo nell’immagine della Veronica:«…Qual è colui che forse di Croazia / viene a veder la Veronica nostra, / che per l’antica fame non sen sazia, / ma dice nel pensier, fin che si mostra: / “Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?”; / tal era io…». In questo caso il Poeta fa riferimento alla preziosa e nota reliquia, conservata all’epoca in Vaticano e, secondo fonti documentate, in occasione delle grandi ricorrenze tradizionalmente esposta alla pubblica venerazione dei fedeli ma di cui oggi non si ha più traccia (secondo alcuni studiosi sarebbe da indentificarsi nel Velo di Manoppello, un fazzoletto di lino dove, in ambo i lati è effigiato il volto sofferente di un uomo crocifisso e coronato di spine, conservato in un santuario presso il borgo abruzzese di Manoppello, nel Teatino).
Nella Commedia però ci sono anche altri riferimenti a Roma. Nel XXV canto dell'Inferno, ad esempio, il Poeta, incontra tra i ladri uno dall'aspetto inquietante: si tratta di un centauro che ha sulle spalle un grande drago che vomita fiamme, e sulla groppa moltissime bisce. Virgilio lo presenta come Caco, un personaggio mitologico (descritto dallo stesso poeta mantovano nell'Eneide come un pastore e non come un centauro) che, secondo la leggenda abitava in una grotta presso il colle Aventino e che era solito rubare i capi di bestiame di chi passava presso quei luoghi, macchiandosi anche di colpe più gravi, quali l'assassinio. Dopo aver rubato alcune bestie ad Ercole, sarebbe stato ucciso da quest'ultimo. Così allora lo presenta Virgilio nella Commedia: «…Lo mio maestro disse: "Questi è Caco/che, sotto 'l sasso di monte Aventino/di sangue fece spesse volte laco…».
Si possono citare ancora altri versi in cui il “Ghibellin fuggiasco”, come ribattezza Dante l’illustre collega e patriota Ugo Foscolo nel suo carme Dei Sepolcri, accenna a monumenti o a luoghi romani. Nel canto XV del Paradiso è citato anche il colle di Monte Mario, dal quale chi veniva dal Nord aveva la prima visione sulla città. In un brano di prosa, precisamente nel saggio dottrinario intitolato Convivio, Dante invece parla della notorietà della “guglia di San Pietro”, l’obelisco egizio di granito ora al centro di piazza San Pietro ma, ai tempi di Dante ancora situato sul fianco sinistro della basilica vaticana. Si può ricordare, infine, l’ipotesi, suggestiva ma tutt’altro che comprovata, che Dante abbia appreso la vicenda della “donazione costantiniana”, poi rivelatasi un falso storico ma grazie alla quale il papato avrebbe legittimato il suo potere temporale, nel corso di una visita alla Basilica dei Santi Quattro Coronati, ammirando un pregevole ciclo di affreschi, mirabilmente realizzati all’incirca mezzo secolo prima da maestranze bizantine nell’annesso sacello denominato Oratorio di San Silvestro, e dedicati appunto alla vita e alle opere di questo pontefice che è immortalato anche nell’atto di battezzare l’imperatore Costantino I il Grande (anche questo fatto in realtà non avrebbe un’attendibilità storica poiché la fonte è un testo agiografico posteriore).
Si è persino tentato di identificare dove esattamente Dante soggiornò nell’Urbe: a poche centinaia di metri dalla basilica di San Pietro, in prossimità della sponda opposta del Tevere, troviamo un edificio, costruito in realtà nel Quattrocento da una famiglia della piccola nobiltà romana, successivamente trasformato in locanda e ora nota come Hostaria dell’Orso, e considerato tradizionalmente ma anacronisticamente l’alloggio capitolino del poeta fiorentino. A Roma in verità c’è un altro storico edificio chiamato la “Casa di Dante”: sorge nel rione Trastevere, ma altro non è che la cosiddetta Torre degli Anguillara, originariamente annessa a un palazzo eretto nel XIII° sec. dall’omonima altra potente famiglia nobile. Il complesso, restaurato nel primo dopoguerra, venne concesso dal Comune di Roma nel 1921, in occasione del 600° anniversario della scomparsa di Dante all’ente culturale, fondato nel 1913 dall’allora Ministro degli Esteri Sidney Sonnino (che la toponomastica ricorda proprio nella piazza adiacente) e denominato appunto “Casa di Dante in Roma”, ancora attivo con lo scopo di promuovere lo studio e la divulgazione dell'opera e della figura del Sommo Poeta.
In conclusione, se a Roma non abbiamo prove incontrovertibili della presenza di Dante, dato che l’unica fonte scritta pervenutaci è la testimonianza dello stesso poeta, possiamo altresì ammirare ben due suoi ritratti a fresco, entrambi frutto dell’eccelso pennello di un altro “divino”, il Maestro urbinate Raffaello, di cui quest’anno celebriamo i 500 anni dalla scomparsa, nello stesso luogo: la Stanza della Segnatura in Vaticano. Il primo piano di profilo del volto con il caratteristico naso aquilino e il capo coronato di alloro, secondo il tradizionale rito di omaggio ai letterari che si erano distinti, è raffigurato nella foto che correda questo ricordo di colui che, ritenuto il padre della lingua italiana, per ironia della sorte porta un nome di battesimo che ha anche un senso compiuto (sia “Durante” che “Dante” sono grammaticalmente due forme verbali, entrambi participi presenti attivi, il primo usato oggi correntemente solo come preposizione mentre il secondo ormai desueto).