
“La Morte in prigione”: è così soprannominata la tomba dell’architetto Giovanni Battista Gisleni. Si trova a Roma, nella controfacciata di quell’immenso scrigno d’arte che è la chiesa agostiniana di Santa Maria del Popolo, nei pressi dell’omonima nota piazza, e si tratta di un originale “memento mori”, distinto su tre livelli. Al primo, il più alto, troviamo il ritratto, dipinto ad olio, del personaggio ancora in vita, incastonato in una cornice ovale. Segue, al di sotto, una lapide marmorea con una lunga iscrizione e, successivamente, nella parte inferiore, una nicchia, chiusa da una grata, dietro alla quale appare uno scheletro in marmo giallo antico, raffigurato dalla cintola in su e con le braccia incrociate sul petto: è ammantato da un candido velo, sempre marmoreo, ad incorniciarne il teschio.
Giovanni Battista Gisleni era nato a Roma nel 1600 da una famiglia benestante d’origine lombarda. Grazie alla buona posizione economica e sociale di suo padre, venne educato dai migliori maestri. Scelse di applicarsi in particolare nelle principali arti figurative (architettura, scultura e pittura) e acquisì anche una buona cultura musicale ma decise di dedicarsi a tempo pieno, come apprendista, all’architettura, frequentando alcuni grandi cantieri nella Roma dei pontefici Paolo V (1605-1621) e Urbano VIII (1623-1644). Non riuscendo però ad ottenere alcuna commissione per sé, iniziò ad intraprendere un lungo viaggio prima attraverso l’Italia, per poi giungere fino alla corte di Vienna, alla ricerca d’un lavoro ma, vista l’impossibilità di ottenerlo, decise, nel 1629, di stabilirsi a Varsavia, in Polonia, paese tradizionalmente favorevole ad accogliere artisti stranieri. Il fenomeno dei “cervelli in fuga” dalla nostra Italia è pertanto iniziato già da qualche secolo e il nostro Gisleni pagò all’epoca lo scotto di essere un professionista che, seppur ottimo, doveva competere con i tanti “mostri sacri” dell’arte, attivi a quei tempi a Roma. In quella terra lontana trovò invece subito un’occupazione, come architetto, presso la corte, dove rimase per quasi un trentennio alle dipendenze di ben tre re polacchi. Per sopravvivere divenne anche cantante, compositore, direttore di teatro e ideatore di macchine scenografiche commissionategli in occasione di vittorie in guerra, di matrimoni, incoronazioni e funerali della famiglia reale.
Tornò diverse volte nella natìa Roma, tra cui nell’Anno Santo 1650, in veste ufficiale di Architetto della Corona Polacca, e vi allacciò strette relazioni professionali con gli ambienti artistici più importanti dell’Urbe. Durante la permanenza in patria ebbe l’opportunità di maturare artisticamente, in quanto trasse umilmente nuove ispirazioni dalle opere di grandi maestri come Gian Lorenzo Bernini, Francesco Borromini, Pietro Berrettini da Cortona. Una volta ritornato in Polonia, progettò la chiesa dei Carmelitani Scalzi di Varsavia, i cui disegni autografi con pianta, sezione e prospetto, sono oggi conservati a Milano, presso le Civiche Raccolte del Castello Sforzesco. Nel 1655 fu eletto socio d'onore, “in absentia”, dell’Accademia di San Luca e divenne membro anche dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon. Tra il 1650 e il 1654, su suo progetto, venne costruita a Cracovia, all’interno della Cattedrale di Wawel la cappella sepolcrale della famiglia reale, nota come cappella Vasa, caratterizzata da una ricchissima decorazione barocca. Tra gli ultimi interventi del Gisleni in Polonia va infine ricordato il grandioso progetto della Galleria nella Villa Regia di Varsavia.
Nel 1656 rientrò definitivamente nella Città Eterna. In un primo momento andò a vivere in abitazioni provvisorie ma dal 1659 si stabilì definitivamente, con sua moglie Mattia De Sanctis e con il figliastro Giovanni Bonaventura, in via della Croce. A sessant’anni iniziò a progettare il proprio monumento funebre, unica opera realizzata nella “sua” Roma. Morirà serenamente, all’età di 72 anni, tra gli affetti delle persone a lui più care, lasciando uno strano opuscolo manoscritto, una sorta di “libretto d’istruzioni”, che illustra, nel dettaglio, ogni particolare del suo monumento funebre. Questo documento, che costituisce pertanto un caso unico nella storia, uscì in stampa nel 1671 ed è stato di recente scoperto e ripubblicato nel 2015. In particolare, il Gisleni, che nella sua vasta lastra tombale marmorea si qualifica come “romano ma, più che viaggiatore, cittadino dell’Orbe”, spiega, nell’opuscolo, il suo curioso epitaffio funebre. Sotto il suo ritratto si trova infatti la scritta “NEQUE HIC VIVUUS” (“Né qui vivo”) mentre sotto lo scheletro si legge “NEQUE ILLIC MORTUUS.” (“Né là morto”) che lui stesso chiosa così: “Sta per senso che in questa vita non si vive, mentre in ogni momento ci andiamo accostando alla morte, né dopo questa è veramente morto chi passa ad altra immortale”. Due medaglioni di bronzo soprastanti la grata, ai lati dell’arme di famiglia, rafforzano inoltre il concetto: a sinistra è raffigurato un baco da seta che muore nel bozzolo e vi sono incise le parole “IN NIDULO MEO MORIAR” (“Morirò nel mio nido”) mentre nel medaglione di destra è raffigurata una fenice, accompagnata dalla scritta “UT FOENIX MOLTIPLICABO DIES” (“Come la fenice moltiplicherò i giorni”).
La città di Roma ha inoltre voluto rendere omaggio a questo suo illustre cittadino, che si è distinto in terra straniera: a lui, infatti, è intitolata una via nel suburbio Gianicolense.
Una leggenda popolare interpreta questo monumento funebre, che segue in ogni caso i canoni berniniani del “bel composto” ovvero dell’armonica giustapposizione di architettura, scultura e pittura, chiamando invece in causa la Compagnia della Buona Morte, oggi denominata Arciconfraternita di Santa Maria dell'Orazione e Morte, con sede presso l’omonima chiesa romana, in via Giulia. Questo pio sodalizio aveva il privilegio di seppellire il “morto di campagna” nella prima chiesa in cui ci si imbatteva durante il trasporto del defunto. Una notte alcuni confratelli tornando dalla via Flaminia col pietoso fardello, non riuscendo a svegliare i frati agostiniani di Santa Maria del Popolo per far aprire la chiesa, decisero di sfondare la porta, alzarono una botola e depositarono giù il cadavere. L’indomani i frati ricorsero al pontefice (il cui nome non è specificato trattandosi di racconto aneddotico) il quale disse loro: “Chi vi ha recato un simile affronto?”. “È stata la Morte”, risposero i frati. “E allora la faremo imprigionare!” avrebbe sentenziato il Santo Padre e avrebbe dato così ordine di innalzare questa scenografica tomba cui oggi viene ancora affibbiato quel bizzarro soprannome.