
A Roma ogni 25 marzo, in occasione della sacra ricorrenza dell’Annunziata, si svolgeva nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva un singolare rito, alla presenza del papa, che vi giungeva con un sontuoso corteo: la processione delle “Ammantate”. Prima della solenne celebrazione eucaristica cantata, presieduta dal Santo Padre, numerose fanciulle si riunivano nell’attuale piazza Santa Chiara, dove sorgeva in origine un fabbricato medioevale in cui tuttora si trova la "Cappella del Transito di Santa Caterina" (luogo in cui la nostra grande patrona morì), inglobato poi in un edificio seicentesco, prima sede dell’Arciconfraternita della Ss. Annunziata. Queste giovani, scelte tra tutti i rioni della città, completamente avvolte in un mantello bianco, e per questo chiamate “ammantate”, con un candido velo che a malapena lasciava scoperti i loro occhi, a simboleggiare la loro purezza verginale, tenendo in mano un niveo cero, si recavano processionalmente, a due a due, alla chiesa della Minerva, addobbata per l’occasione con numerosi arazzi, luci, festoni di frutta e verdura, andando a genuflettersi dinanzi a Sua Santità a conclusione della sacra liturgia. Dopo il Bacio della Sacra Pantofola, veniva consegnato loro un sacchetto di seta bianca con una dote di 50 scudi per quelle che intendevano prendere marito e di 100 scudi per quelle che intendevano prendere il velo. Questo curioso e tradizionale “Rito delle Zitelle” o “Zite” fu voluto dall’influente cardinale domenicano spagnolo Juan de Torquemada, (imparentato con il primo celeberrimo Grande Inquisitore di Spagna, il confratello Tomás de Torquemada, quest’ultimo in verità discendente da una famiglia di ebrei sefarditi convertiti). Fu proprio lui che nel 1460 istituì l’Arciconfraternita della Ss. Annunziata, composta da 200 cittadini romani, il cui unico scopo era quello di esercitare opere di carità. Per i confratelli uno dei campi più fecondi per l’applicazione dei loro programmi assistenziali era quello di salvare le giovani donne che per mancanza di mezzi venivano spesso trascinate alla prostituzione. Il pio sodalizio elaborava ogni anno degli elenchi nei quali potevano iscriversi le fanciulle che avessero compiuto 15 anni. Dopo tre anni di prova, se ritenute meritevoli, alle zitelle vergini, oneste e di buona reputazione veniva consegnato il sussidio al termine della cerimonia sopra descritta. Il numero delle doti variava a seconda del bilancio dell’Arciconfraternita (da un minimo di 35 scudi ad un massimo di 80 scudi, oltre alle vesti e a un fiorino per le pianelle) che riusciva a pagare fino a 600 donazioni in un solo anno, arricchendosi nel corso dei secoli grazie a numerosi donativi di pontefici, cardinale e privati cittadini. Tra questi è degno di menzione il cospicuo lascito testamentario di 30.000 scudi, corrispondente in pratica al proprio intero patrimonio, disposto da papa Urbano VII Castagna (nato a Roma ma di nobile famiglia genovese). Questo pontefice, deceduto per violente febbri malariche, grande flagello di allora, il 27 settembre 1590, senza nemmeno essere stato incoronato, dopo appena 13 giorni dall’elezione (tuttora vanta il primato negativo del pontificato più breve di sempre), venne sepolto prima nella basilica Vaticana e successivamente, nel 1606, il suo corpo imbalsamato venne traslato nella quarta cappella di destra della chiesa della Minerva, di proprietà della stessa Arciconfraternita, che volle così ricompensarlo per la grande generosità commissionando una sontuosa tomba allo scultore milanese Ambrogio Buonvicino (autore in seguito anche del bassorilievo raffigurante la Consegna delle Chiavi a San Pietro incastonato nella facciata della suddetta basilica tra il portale centrale e la Loggia delle Benedizioni).
A tal proposito vorrei focalizzare la nostra attenzione proprio sulla pala d’altare della stessa cappella che ospita il monumento sepolcrale del munifico papa, raffigurante un’Annunciazione, probabilmente meno nota di quella, senza dubbio mirabile, realizzata da Filippino Lippi, che possiamo ammirare in un altro sacello, situato nel transetto di destra della stessa chiesa della Minerva (si tratta della cappella funebre della potente famiglia napoletana dei Carafa, voluta da un suo membro cardinale in cui è ospitata anche la tomba di un discendente di quest’ultimo, porporato come lui e futuro papa Paolo IV). In questo caso la firma, certa, non è da meno: si tratta di Antonio di Benedetto degli Aquili detto Antoniazzo Romano (1430–1508), uno dei pittori principali della scuola romana del Rinascimento, ma questa rappresentazione del Mistero dell’Incarnazione presenta alcuni spunti decisamente interessanti. La prima singolarità che balza subito all’occhio è la cappa nera domenicana indossata dalla Vergine, forse un’espressa richiesta del committente dell’opera, lo stesso sopracitato fondatore dell’Arcinconfraternita, il cardinal Juan De Torquemada, devotissimo della Madonna, che è effigiato in piccolo, inginocchiato davanti alla Madre di Dio. Accanto a lui però troviamo, sempre in scala ridotta, tre fanciulle, una delle quali sta per ricevere dalle mani di Maria il sacchetto contenente la dote. Il candore delle loro vesti richiama i tre rami di bianchissimo giglio, simbolo di purezza e castità, che l’Arcangelo Gabriele sta porgendo alla Donna prescelta da Dio per essere la Madre del Suo Figlio, un fiore che, secondo una consolidata tradizione iconografica, ne simboleggia la triplice perenne verginità, prima, durante e dopo il parto.
Nel 1870, quando le proprietà dello Stato Pontificio furono confiscate dallo Stato italiano, l'Arciconfraternita purtroppo fu soppressa, il rito fu sospeso e persino l'edificio che ne fu originaria sede venne diviso, ma questa deliziosa raffigurazione dell’Annuncio dell’Angelo a Maria ci riporta indietro nel tempo e ci permette di mantenere viva la memoria di questi antichi riti di schietto carattere popolare, in cui si coniugano mirabilmente preghiera e carità.